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«La cultura aziendale non si impone: si respira». Intervista a Babila Bruni, Cluster Director People & Culture Mandarin Oriental

«Creare la cultura è qualcosa che richiede tempo. È qualcosa che richiede anche degli esempi», dice Babila Bruni, Cluster Director People & Culture di Mandarin Oriental, Milano e Como. Una frase semplice, ma potente, che riassume il cuore di un lavoro invisibile: quello che rende un hotel non solo efficiente, ma “vivo”.

Quando parliamo di cultura aziendale, spesso ci immaginiamo manuali, slogan, lavagne piene di post-it. Ma per chi guida un team ogni giorno, come Babila, «tutto il management deve essere allineato rispetto ai valori e alla visione dell’azienda… dando l’esempio».

Il turnover è inevitabile?

Lo chiediamo a chi da anni seleziona e accompagna nella crescita decine di professionisti: «Il turnover è un problema generalizzato. Dopo la pandemia sono mutati molto i parametri con cui si interpreta la propria vita, sia professionale che privata».
Non è un problema solo italiano. È un’onda lunga che riguarda le nuove generazioni, i loro desideri e il modo in cui valutano le opportunità.

«Molti giovani oggi, anche dopo una crescita professionale, decidono di cambiare completamente strada e lasciare l’hospitality». Ecco perché retention e recruiting diventano due lati della stessa, difficile medaglia.

Come si trattiene il talento?

«Più che il fattore economico, che certamente incide, c’è anche un discorso di progetto lavorativo. Di crescita. Di clima».
Il Mandarin, per esempio, offre benefit mirati: «diamo l’abbonamento annuale per tutti i mezzi pubblici ai nostri colleghi. Un gesto concreto, che unisce sostenibilità e benessere personale».

Ma non basta pagare bene o offrire vantaggi. Bisogna condividere dei valori. «La Bocconi ha dimostrato che le nuove generazioni scelgono aziende che credono veramente nella diversity, nella sostenibilità, nella formazione».

Come si seleziona il candidato giusto?

La risposta, sorprendentemente, non è tecnica. «Sempre più, gli aspetti tecnici sono quelli che contano meno. Al netto della lingua inglese, ovviamente. Quello che cerchiamo è la passione. L’empatia. La disponibilità al sacrificio».
E poi c’è l’atteggiamento. «Durante l’intervista chiediamo se il candidato conosce la storia del nostro gruppo, i suoi valori. È una misura concreta di quanto quel candidato sia allineato alla nostra visione».

E se una volta era il candidato a fare il primo passo, oggi... «molti non fanno nemmeno application. Si aspettano che sia tu a cercarli, a contattarli su LinkedIn. È cambiato tutto».

Meglio cercare fuori o coltivare dentro?

«Abbiamo una percentuale di ricerca esterna per figure apicali che è praticamente bassissima», dice con orgoglio.
La politica è chiara: prima si cerca in casa. «Anche se manca ancora uno step, se vediamo il potenziale in un collaboratore interno, si investe su di lui. E questo rafforza anche la retention».

E il clima? Fa davvero la differenza?

Quando qualcuno entra al Mandarin dice: “Ma qui si respira un’atmosfera diversa”. Non è solo questione di formazione, di leadership gentile, o di protocolli ben scritti. È l’insieme. È il modo in cui ci si sente guardati, ascoltati, rispettati.

Anche l’intelligenza emotiva oggi è misurata. Negli ultimi audit, uno dei criteri è proprio questo: quanto sei stato empatico con l’ospite, quanto sei riuscito a farlo sentire a casa.

Che ruolo avranno le persone, nel futuro degli hotel?

L’intelligenza artificiale, la domotica, i robot: non sono più futuro, sono già qui. Ma per Babila Bruni, non c’è confronto. «Il contributo delle persone, la loro capacità di creare esperienza e relazione, è insostituibile. La tecnologia ci aiuterà, ma l’anima la danno le persone».

Cosa resta, alla fine?

«La più grande soddisfazione? Quando un collega, anni dopo, ti scrive e ti chiede consiglio prima di prendere una decisione. Perché si fida. Perché sa che tu ci sei».
È questo il valore umano che resta, anche dopo una carriera spesa tra report, turni, budget e aperture. È questa la vera eredità di chi lavora con passione.

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Paghe, padelle che volano e budget che respirano: perché il consulente del lavoro può salvarti l’estate

«Il mio segreto? Decidere in quattro secondi cosa fare, come Mister Wolf in Pulp Fiction».
Alessandro Bascucci, 44 anni, riminese, consulente del lavoro diventato punto di riferimento per oltre trecento hotel in tutta Italia, sorride mentre ricorda le volte in cui è stato convocato d’urgenza in cucina: «Mi chiamano e mi dicono: “Corri, si stanno tirando le padelle!”».

Come passare dalle paghe al pronto intervento?

Vent’anni fa faceva marketing in azienda, poi un amico commercialista gli propose di aprire “l’ufficio paghe”. «Non sapevo neppure cos’era un cedolino», racconta; oggi, invece, elabora 3000 buste paga al mese con una squadra di 18 persone. «Ormai siamo dei dottori che devono intervenire per salvare il paziente: in quattro secondi dobbiamo capire cosa dire, come dirlo e quello che succederà da lì a sei mesi».

Quando va curato il problema?

Bascucci lo ripete come un mantra: «Il primo comandamento è lavorare bene finché ancora il problema non c’è». Significa due cose:

  1. Organigramma scritto – nero su bianco, ruoli e funzioni di ogni reparto. Senza, in piena stagione, non sai nemmeno quanti addetti hai in sala.
  2. Budget del personale – lordo azienda, ferie, tredicesima, Tfr. Se calcoli solo il netto, vivi di flussi di cassa falsamente positivi e a novembre scopri di aver speso 10 000 € in più.

Cosa fare quando il Ferragosto trema?

Il caso-limite? Un ammutinamento di camerieri il 13 agosto. Tre ragazzi hanno minacciato di andarsene. Bastava una risposta emotiva sbagliata via WhatsApp per scatenare una vertenza. «Il lavoro del consulente è quello di toglierti il peso: se ne fa carico lui, così tu dormi sereno e lavori - almeno con un occhio chiuso».

Il rapporto con il cliente è importante per capire come gestire al meglio dinamiche complesse: «Ci dobbiamo continuamente immedesimare su chi c'è dall'altra parte, al telefono, per capire veramente le esigenze, quello che sta vivendo. Non facciamo delle buste paghe, noi siamo ormai dei confidenti e quindi dobbiamo essere sempre pronti a intervenire».

Come attivare una “retribuzione intelligente”?

Il capitolo più incompreso è la “retribuzione intelligente”. Molti albergatori ignorano strumenti che riducono il cuneo senza toccare il portafoglio del dipendente:

  • Fringe benefit: fino a 1 000 € l’anno (2 000 con figli) in benzina, bollette o affitto, costo 1:1.
  • Welfare aziendale: nessun tetto, basta un regolamento interno e va erogato per categorie omologhe – perfetto per premiare i capi partita o il front-office.
  • Mance in busta: può essere inserita come voce all’interno del cedolino, sia in formato elettronico che in contanti; l’hotel incassa e gira al collaboratore.

Ma serve organizzazione: «I benefit possono valere 15 000 € di risparmio, ma c’è da fare un lavoro a monte»: occorre raccogliere le ricevute e la tecnologia ci aiuta in questo, ma manca proprio la cultura.

Si può pagare la formazione dello staff?

Altro cassetto dimenticato: i fondi interprofessionali, che si accumulano con i contributi versati ogni mese. Con Forte o Fondimpresa puoi finanziare corsi di formazione al tuo staff, da corsi di upselling al ricevimento a nuove tecniche di pasticceria: dai 5 ai 15 000 € l’anno, azzerando il costo vivo.

Come fanno i consulenti a rimanere a contatto con i clienti?

Per colmare il gap di conoscenza, Bascucci ha aperto un canale broadcast per i suoi clienti: «Non ti dico che è aumentata l’IVA, ti dico cosa può essere utile per la tua azienda». Poi va in hotel: «Starò due ore in ufficio, il resto sono tutte visite»: uscire dall’ufficio e andare dentro l’azienda permette di respirare l’aria dei problemi e di capire come risolverli. Inoltre, è importante anche parlare con lo staff, per cui periodicamente è prevista una visita Q&A con i collaboratori.

La morale per l’albergatore?

Non aspettare la padella che vola. 

Abbiamo chiesto ad Alessandro qual è secondo lui il motivo principale per cui un hotel paga più di quello che potrebbe pagare, a parità di numero di dipendenti e di importo netto che eroga. 

«Sicuramente la mancanza di conoscenza degli strumenti che un imprenditore può utilizzare, però da ogni problema deve nascere un’opportunità e anche questo può essere in qualche maniera superato». E magari la sera di Ferragosto, invece di spegnere incendi, puoi brindare con gli ospiti.

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«In reception, su TikTok»: l’albergatore che racconta la vita d’hotel

«Sono nato nel ’97 a Rimini e ho sempre vissuto qui». Così si presenta Lorenzo Mura, meglio conosciuto come l’albergatore di TikTok. Nonostante la giovane età, ha già alle spalle 14 anni di lavoro in hotel: «Ho iniziato ufficialmente a lavorare a 16 anni all’interno di un residence con mia madre e il suo compagno. Poi siamo passati in un altro albergo come affittuari e da cinque anni gestiamo l’hotel dove ci troviamo attualmente».

Un apprendista con esperienza, come ama definirsi: «Ho 27 anni ma lavoro già da 14 praticamente».

Perché ha aperto un profilo TikTok?

«Sono sempre stato un fruitore di tutti i social. A una certa ho detto: ci sono talmente tante persone che si riprendono mentre fanno il lavoro, perché non proviamo? Male che vada non succede niente, male che vada non mi guarda nessuno».

Da maggio ha iniziato a pubblicare video dalla reception: momenti quotidiani, interazioni con gli ospiti, domande e curiosità. Il risultato? «Ho iniziato a pubblicare qualche video, alcuni momenti della giornata dell’albergatore alla reception e hanno avuto una piccola esplosione che mi ha portato adesso a fare circa 20.000 follower, con un aumento costante».

Chi segue un albergatore in diretta?

Il pubblico delle sue live è sorprendentemente eterogeneo. «Chiedo spesso l’età e da dove mi guardano. Va dai 16 ai 60 anni, da tutta Italia ma anche italiani all’estero. L’altro giorno una persona mi scriveva dalla California: “mi sto mettendo a dormire e ti tengo in sottofondo perché lo trovo rilassante”».

C’è anche un effetto inatteso: «C’è molto ASMR. Alcune persone lo seguono proprio per il rumore della tastiera e per l’atmosfera».

Quali sono le domande più frequenti?

«Ogni cinque commenti mi chiedono: quanti anni hai? Dove abiti? Sei fidanzato?». Poi arrivano le richieste classiche: «Quante stelle ha l’hotel? Ha la piscina?».

Ma non mancano quesiti tecnici: «Di recente qualcuno mi ha chiesto: come si gestisce la comunicazione tra le pulizie e la reception per sapere quali camere sono pronte?».

Perché non dice il nome dell’hotel?

È una delle curiosità che più tormenta gli spettatori. «I motivi per cui non lo dico sono diversi. Ho paura che rivelando il nome possano lasciare recensioni negative solo perché sono antipatico io, oppure fare scherzi telefonici. E poi c’è anche il lato opposto: chi magari mi adora e cerca un contatto solo per avere a che fare con me».

Gli haters sono inevitabili?

«La quantità di shitstorm che arriva nei commenti è molto alta rispetto alle altre piattaforme e spesso più cattiva».

Il caso più eclatante è stato un video diventato virale, in cui rifiuta il check-in a una ragazza minorenne senza delega. «Sotto il video è partito il putiferio: c’era chi diceva “io viaggio da solo da quando avevo 15 anni e non mi hanno mai chiesto nulla”. Ma le leggi sono chiare: un minorenne senza delega non può soggiornare».

Conviene davvero a un albergatore aprire TikTok?

«Io personalmente direi di sì, ma bisogna mettere in conto che i commenti negativi sono tanti. Più alti come percentuale e più cattivi».

E soprattutto, non è promozione diretta dell’hotel: «È personal branding. Al momento l’hotel non ne beneficia, anche se qualcuno mi ha chiesto preventivi. Ho smesso: molti scrivevano solo per farsi dire il nome della struttura».

Quanto è difficile crescere su TikTok?

Il percorso è fatto di scaglioni: «Per arrivare a 1000 follower ci ho messo tantissimo. Poi da 1000 a 6000 è stato velocissimo. Dai 16.000 ai 17.000 invece un’eternità. Ora sto crescendo di circa 200 follower al giorno».

E qui la lezione per gli albergatori: la costanza conta più della viralità casuale.

Qual è il consiglio numero uno per chi vuole provarci?

«Iniziare. Un telefono ce l’abbiamo tutti, un cavalletto da 8 euro basta e avanza. Io in reception faccio dirette anche di tre ore: non richiedono montaggio, non richiedono preparazione. Se capita qualcosa di interessante, registro con un secondo telefono».

Il resto è trovare un format che funzioni e avere la costanza di portarlo avanti. «Il consiglio è cercare qualcosa che non si vede ancora. Non dico mai fatto da nessuno, ma qualcosa di diverso. Perché se sei impacciato o copi altri, non funziona».

TikTok è uno spazio dove anche l’hotellerie trova voce, tra ironia e quotidianità. «Io penso che ci sia ancora margine per crescere, ma bisogna avere un contenuto originale. Il resto lo fa la costanza».

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Andrea Falzaresi: «Un family hotel deve offrire qualcosa di unico e difficilmente imitabile»

C’è chi eredita un mestiere e lo porta avanti. E c’è chi, partendo da un percorso completamente diverso, riesce a trasformare un settore. È il caso di Andrea Falzaresi, fondatore del gruppo Club Family Hotel, oggi la catena di hotel per famiglie più grande in Italia. Una realtà che conta quindici strutture tra Cesenatico, Milano Marittima e Riccione, e che è diventata un modello per tanti albergatori.

Come sei passato da gioielliere ad albergatore?

Falzaresi racconta i suoi esordi senza enfasi, come se fosse la cosa più naturale del mondo. In realtà, quel passaggio quasi forzato all’hotel di proprietà dei suoceri, lo Smeraldo di Cesenatico, ha innescato una scintilla. Un cambio di vita che si è rivelato la base per una crescita imprenditoriale rapida e continua.

Chi lo osserva da fuori potrebbe pensare che per guidare una catena serva una formazione alberghiera classica. Ma spesso, lo dimostra la sua storia, proprio l’esperienza “esterna” diventa un vantaggio.

Da dove nasce l’idea di creare una catena?

All’inizio, non c’era nessun piano industriale. Solo la voglia di sperimentare. «Prima prendo un albergo, poi il secondo. Differenziazione del prodotto, specializzazione del prodotto… e un giorno un amico mi chiede: “Ma quanti ne vuoi fare?” Ho risposto tre, ma siamo arrivati a quindici».

Un percorso fatto di tentativi, intuizioni, errori e nuove idee. È così che prende forma quello che oggi è il gruppo di riferimento del turismo family in Italia.

Qual è stato il segreto del brand Club Family Hotel?

La vera svolta arriva con una decisione semplice, ma visionaria. «Ho preso tutti i domini con la parola family e la località: family hotel Cesenatico, family hotel Milano Marittima…». Una scelta che quindici anni fa non era affatto comune, ma che ha garantito al brand un vantaggio competitivo enorme: «Essendo la keyword di ricerca uguale al dominio, siamo subito primi su Google».

Dietro il successo, quindi, non c’è solo la gestione operativa. C’è una strategia di marketing chiara e lungimirante, che ancora oggi fa scuola.

Proprietà o gestione: cosa funziona di più?

Falzaresi non ha dubbi: «Gli alberghi in gestione producono reddito senza impegno finanziario. Poi sono subentrati gli acquisti, e avere due flussi ci ha dato credibilità sul mercato bancario».

Un modello ibrido, che unisce solidità e flessibilità. E che dimostra come la crescita non sia necessariamente legata a grandi investimenti iniziali, ma a scelte finanziarie ponderate e progressive.

Quanto conta specializzarsi?

«Se siamo generalisti, troveremo sempre un competitor che fa il prezzo più basso del nostro». Per questo la catena ha puntato con decisione su un target preciso: le famiglie. L’80% del mercato della riviera è fatto da famiglie con bambini.

Una lezione che va oltre il segmento family: senza specializzazione si subisce il mercato, con la specializzazione lo si cavalca.

Che impatto ha avuto il brand sulle vendite?

I numeri raccontano meglio delle parole. «Tra richieste e prenotazioni siamo all’8-12%. Noi siamo al 20-25%. Mille visite ci portano 250 richieste».

Il brand non è un concetto astratto: è conversione, velocità di vendita, prezzi più alti e fidelizzazione. In un settore in cui molti albergatori temono di non riuscire a distinguersi, il caso Club Family Hotel mostra l’impatto concreto di un posizionamento forte.

Quali servizi fanno davvero la differenza?

Il pediatra gratuito, per esempio. «Ho pensato: perché non offrirlo gratis ai nostri clienti?». Un servizio unico, diventato simbolo del brand.

Ma non è l’unico. Dalle piste di autoscontri ai parchi giochi interni, ogni anno viene introdotta una novità. «Il principio è differenziare il prodotto, sempre». Un approccio che ha trasformato il family hotel da semplice “hotel per famiglie” a format esperienziale completo.

Quali dimensioni servono per fare un vero family hotel?

«Sotto le 80-90 camere è difficile, servono spazi ampi: se ti dichiari family ma non lo sei davvero, vieni massacrato nelle recensioni».

Il messaggio agli albergatori è chiaro: il posizionamento non si improvvisa, ma servono investimenti, coerenza e soprattutto strutture adeguate.

Family hotel e lusso: due mondi separati?

«Noi cerchiamo sempre di alzare l’asticella della qualità dei nostri servizi, anno dopo anno». Un’evoluzione che apre scenari interessanti: il segmento family non è destinato a restare “popolare”, ma può conquistare un pubblico più esigente e disposto a spendere.

Che consiglio dai ai giovani albergatori?

Falzaresi conclude con un avvertimento netto: «Prima il progetto, poi la struttura. Non prendere un albergo piccolo solo per iniziare: rischi di rovinarti dopo un’estate».

Un messaggio che racchiude tutta la sua filosofia: il successo non nasce dal caso, ma dalla capacità di immaginare un format, renderlo unico e replicarlo con coerenza.

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«Il futuro degli hotel passa dal copywriting e dall’intelligenza artificiale»: intervista a Marco Lutzu

Marco Lutzu è uno dei punti di riferimento in Italia in generale per il marketing, ma specificamente per il copywriting. Da subito l’atmosfera diventa quella di una conversazione tra amici, con ricordi condivisi e percorsi paralleli: «Abbiamo fatto strade parallele però siccome la conoscenza che hai di questo argomento è particolarmente utile, molto spesso ci troviamo ad affrontare conversazioni sul tema». Un professionista che ha saputo vivere sulla propria pelle le trasformazioni del mercato.

L’intelligenza artificiale distruggerà il lavoro dei copywriter?

La domanda aleggia da tempo e Marco la affronta senza mezzi termini: «Da un giorno all’altro è uscito ChatGPT, cosa che stravolgerà sempre più il lavoro. Cerchiamo di prendere la via di mezzo: è una rivoluzione, che ti piaccia o no ci devi fare i conti».

Cosa cambia davvero per chi fa impresa?

Non si tratta di estinzione, ma di evoluzione: «Non credo che sia un asteroide che estingue persone: semplicemente fa evolvere il lavoro». La strategia di Marco è stata chiara: «La mia decisione è stata impossessarsi della divulgazione, cercando di testare e divulgare allo stesso tempo».

La domanda arriva spontanea: cosa c’entra tutto questo con il mondo dell’hôtellerie? Marco non ha dubbi. «Le applicazioni più diffuse sono tre: la creazione di annunci di lavoro, che come tu sai è diventato un punto assolutamente critico; la risposta alle recensioni, perché ti toglie l’emotività; e la newsletter di contenuto».

Tre esempi semplici, che molti albergatori possono mettere in pratica già oggi.

Dove resta il valore umano?

Se la tecnologia cresce, cresce anche la domanda di autenticità. «Quando c’è una persona che parla, dall’altra parte ti chiedi: ma questa cosa è vera o non è vera? E prima ancora ti chiedi se lui è vero o non è vero».

E qui sta il nodo per l’ospitalità: «In albergo quello che tu vendi è un’esperienza human to human… il grande valore è dato dal servizio che ti dà la persona».

Quale futuro per gli hotel italiani?

Il punto è culturale: «Sai cosa manca? L’ambizione. Perché la tua famiglia ha sempre avuto un tre stelle, ma perché non alzare le stelle?».

L’Italia è il Paese con la maggiore incidenza di tre stelle in Europa. Piccolo problema: ormai la persona media a casa ha un livello di comfort maggiore di quello che offre un tre stelle. La ricetta? Pensare in grande. «Nel turismo non esistono i prodotti, esistono i sogni. Devi vendere un sogno chiaro, e per vendere un sogno devi avere il coraggio di alzare l’asticella».

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Stefano: «Il Covid è stato un terremoto. Oggi rifarei tutto, ma con più entusiasmo»

«Sono nato e cresciuto dentro un albergo. Mio padre e mia madre hanno avviato la loro attività nel ’75, ma già sette anni prima avevano avuto altre gestioni. Io sono la seconda generazione», racconta Stefano, albergatore romano. L’hotel di famiglia si trova tra via Nazionale, il Quirinale e il Teatro dell’Opera: una posizione invidiabile. «Era una bella location, diciamo che questa può essere considerata una storia fortunata».

Un percorso che sembra lineare, ma che negli ultimi anni ha avuto un brusco scossone.

Che cosa ha significato il Covid per te?

«È stato un grande terremoto. Ho dovuto chiedermi se avessimo addirittura le chiavi per chiudere la struttura, cosa che non era mai successa in quasi cinquant’anni. Per me era sempre stato un flusso continuo di lavoro, una parte naturale della vita».

Stefano non lo nasconde: «Prima non ero mai stato preoccupato economicamente rispetto al raggiungimento di un risultato. Le difficoltà c’erano state, certo, ma erano legate alla crescita: da 9 a 24 camere non è uno scherzo». Il Covid, però, ha imposto una svolta radicale: rivedere priorità, modelli di gestione, perfino il modo di vivere la professione.

Come sei arrivato a confrontarti con altri albergatori?

La crisi diventa anche occasione di incontro. «In quel momento, disorientato, cercavo qualcosa per avere notizie, per cercare di capire anche come i colleghi in qualche modo stessero reagendo a questa situazione. Daniele in una live verificava la correttezza e la competitività dei siti web, io ero convintissimo che il sito fosse totalmente sballato e lui invece me lo approvò e quindi io rimasi stupito: avevo avevo bisogno probabilmente di quella mano sulla spalla per il cambio generazionale che io non avevo avuto».

Una rivelazione: «Ho capito che non esiste un solo modo per fare questo mestiere, il confronto con l’esterno è stato fondamentale».

Quanto contano oggi marketing e reputazione online?

«Per tanti anni ho vissuto di guide turistiche internazionali, eravamo inseriti su pubblicazioni molto importanti. Quello mi ha permesso di non dipendere dalle OTA. Ma non basta più aprire la porta per riempire le camere», ammette.

Poi arrivano le recensioni online. «All’inizio mi arrabbiavo. Mi dicevo: ho scelto i materassi migliori, ho fatto investimenti, e tu mi scrivi che il letto è scomodo? Poi ho capito che le recensioni vanno lette diversamente: sono spunti di riflessione, un’occasione per rimettersi in gioco».

Se dovessi ricominciare, lo rifaresti?

Stefano non ha dubbi. «Lo rifarei con più entusiasmo e con un focus diverso. Oggi ho consapevolezze che prima non avevo. È un mestiere duro, ma è bellissimo. Ogni cliente lascia qualcosa dentro di te: musicisti, pittori, viaggiatori… è una banca di esperienze che ti porti dietro per la vita».

Il senso finale è chiaro: se alla fine di tutto lo rifaresti, significa che ne è valsa la pena.

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Com’è gestire un hotel in zona industriale?

«Olgiate Olona, in provincia di Varese, zona industriale ovviamente, quindi ancora più bella», racconta con ironia Sergio Castella. Settantatré camere, in parte hotel e in parte motel, non esattamente il contesto glamour che molti immaginano quando pensano all’hôtellerie. Eppure, proprio in luoghi così la competenza fa la differenza: «Lì devi essere sempre sul pezzo».

Come si passa dalla Milano turistica alla provincia?

Milanese doc, Sergio ha iniziato giovanissimo negli alberghi di città. Poi la scelta di cambiare: «Pensavo che nel futuro la cosa migliore fosse cambiare tipologia di albergo, non avere più la bellezza di 15 camere, ma numeri che ti potessero dare una marginalità per poter fare una vita normale». Il passaggio non è stato semplice: «Fuori Milano il 90% delle prenotazioni sono programmate. Io ero abituato alla working zone centrale dove ogni giorno si trovavano 50 persone e vendevi le camere così».

E il marketing?

Prima dell’incontro con Albergatore Pro, il marketing “non esisteva”: «Il nostro era lavorare bene, cercare di essere bravi coi clienti. Programmazione sì, ma non marketing». Il cambiamento è arrivato con strategie proattive e budget dedicati, anche in un contesto poco turistico.

Come si trasforma una crisi in opportunità?

La pandemia, per Sergio, è stata un banco di prova: «All’inizio vissuta come un dramma, poi come un’opportunità». In 33 giorni di chiusura obbligata, ha digitalizzato l’hotel e si è inventato soluzioni “analogiche” vecchio stile. Una delle più efficaci? «Ho tirato come con il compasso un cerchio attorno all’albergo, ho visto i cantieri aperti e ho chiamato i responsabili. Alcuni avrebbero perso il lavoro se non li avessimo ospitati».

Si può gestire la ristorazione senza ristorante?

Il suo ristorante era chiuso, ma non i pasti per i clienti: «Ho trovato un ristorante a gestione familiare e, con WhatsApp Business, abbiamo programmato consegne in camera senza contatto». Una scelta che ha salvato cene e rapporti con gli ospiti.

Rompere gli schemi può essere redditizio?

«Perché ho sempre fatto colazione fino alle dieci?», si è chiesto durante il Covid. La risposta è stata un’ora in più di servizio, oggi apprezzata dai clienti. Stesso approccio per le innovazioni: camera con sauna privata, colonnine elettriche, addio alla moquette: nei tre anni post-Covid ha fatto più investimenti che nei tre precedenti.

Il controllo di gestione cambia davvero le scelte?

Con Usali ha introdotto un bilancino mensile: «Quando vedi nero su bianco che un mese ti costa 50.000 euro di perdita, capisci che forse aprire meno è più profittevole». Un approccio che ha portato più consapevolezza e marginalità.

Quanto conta il personale?

«Bisogna avere persone migliori del mondo, perché se poi ti ritrovi qualcuno non qualificato, butta giù tutto». Per migliorare il benessere dello staff, ha cambiato i turni: ha proposto 30 ore su cinque giorni anziché sei, a parità di contratto, e ne sono rimasti felicissimi.

La lezione più grande?

Per Sergio, la pandemia ha insegnato due cose: il coraggio paga e l’attenzione al dettaglio è decisiva. «Se non sei innamorato di questo lavoro non ti viene in mente neanche una ricerca dell’eccellenza». E non si tratta solo di fatturato, ma anche di mantenere tutte le promesse fatte agli ospiti.

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Come si sopravvive se i costi aumentano più dei ricavi?

«È finita l'era degli alberghi di 20-25 camere in destinazioni non di prima punta». Alex Gasperoni non ha dubbi: il modello tradizionale non è più sostenibile, almeno non senza ripensare da capo costi, margini, e organizzazione. Il focus si sposta sulla parte sinistra del conto economico. I ricavi oggi fanno meno paura: circa 50 hotel clienti hanno fatto il record storico. Ma i costi? Sono l'incubo di ogni confronto, dal webinar alla chiacchierata al bar.

Piccolo è ancora bello?

Dipende. «Se segui un modello tradizionale, pensione completa con pasti serviti, la risposta è no. Ma conosco un'albergatrice felice con cinque camere. Cucina lei, cena con gli ospiti». Quello che cambia tutto, secondo Gasperoni, è la capacità di contenere i costi di struttura. «Più l'albergo è grande, più è facile portare a casa risultati. Preferisco 100 camere a New York che 30 a Rimini».

Meglio il ristorante o solo il pernottamento?

«Con almeno 40 camere, il ristorante genera un margine in valore assoluto maggiore». Ma c'è un limite di scala: «Con 30 camere non fai economie di scala; quindi, a meno che tu non sia in Costiera Amalfitana o sul lago di Garda, tanto vale cambiare modello». E anche il passaggio al B&B ha i suoi costi: se non ristrutturi, non sei competitivo; il cliente da B&B è molto più attento al dettaglio.

Chi guadagna davvero: chi spende meno o chi ottiene di più?

«Non vince chi paga meno, vince chi ottiene di più». Il nodo vero, oggi, è il personale, la risorsa scarsa per eccellenza. Bisogna chiedersi fino a dove posso arrivare per attirare talenti. Perché chi li ha, sta vincendo la battaglia. Serve metodo. Serve un sistema che permetta di calcolare il costo per notte, per reparto, per addetto. Solo così puoi scegliere: chiudo il ristorante o lo rilancio? Tengo questo cameriere o lo premio?

Il cliente abituale è sempre una risorsa?

«Se ti porti dietro quelli vecchi, avrai i ricavi vecchi. Ma con i costi di oggi non si sta più in piedi». Per Gasperoni è il momento del coraggio: «Non tutti gli albergatori hanno il pragmatismo imprenditoriale per licenziare un cliente». Ma se uno ti costa 40 euro a notte, è giusto farlo. E se si vuole portare il cliente in un nuovo posizionamento, serve accompagnarlo. «Mai testare la profondità di un fiume con due piedi: il passaggio va fatto con gradualità».

Cosa cambia tra una spesa su Booking e una su Google?
«10.000 euro spesi su Facebook e 10.000 euro spesi su Booking hanno natura profondamente diversa». Il problema? «Quando me li trovo nei bilanci insieme a "altri costi per servizi" mi vengono i brividi». Per questo il metodo conta: le commissioni si tolgono dai ricavi. Così vedi subito quanto male fanno.

Come si prende una decisione davvero strategica?

Quando hai chiaro il tuo costo di acquisizione cliente, da dove proviene, e quanti arrivano diretti. In quel momento, puoi anche scegliere di regalare un massaggio da 40€ a chi prenota dal sito: «Se non vuoi farlo perché sei generoso, fallo perché sei tirchio».

Ogni anno è un territorio inesplorato. Non è più come prima, che bastava aggiustare qualcosa lungo il cammino. Adesso serve pianificare tutto prima di partire.

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«L’estate ci ha premiato, sì. Ma a che prezzo?»

Se lo chiedono in tanti, oggi. Albergatori di successo, professionisti che fatturano milioni, strutture piene, ma menti stanche. Stremate. Non dal lavoro in sé, ma dalla continua sensazione di camminare su una fune tesa. Ogni giorno in equilibrio tra costi in salita, personale introvabile e clienti sempre più esigenti.

Mancanza di motivazione? Dubbi irrisolti?

Chi lavora con gli hotel lo sa: i problemi non sono solo quelli “visibili”. Le bollette aumentano, il personale manca, il cliente cambia, e tu sei lì che ogni mattina riapri le porte. Ma dentro ti chiedi: “Ne vale ancora la pena?”

La risposta – anche se non dichiarata – sta tutta nella parola “condivisione”. Che poi è il vero cuore di AlbergatorePro: raccontare, riflettere, confrontarsi. E sentirsi meno soli.

Cosa può essere davvero d’aiuto per l’albergatore?

Non si tratta di fare filosofia. Si tratta di riportare l’essere umano al centro dell’impresa. Perché senza equilibrio, anche il miglior sistema gestionale finisce per sgretolarsi. Il mestiere dell’albergatore non è mai stato facile, ma oggi è diventato ancora più complesso, più esposto e, paradossalmente, più solitario.

«Le associazioni? Parlano sempre degli stessi problemi: rotonde, marciapiedi, tassa di soggiorno. E quando esci da quelle riunioni, ti senti più svuotato che ispirato».
Per questo il vero valore, oggi, è il confronto tra pari. Tra albergatori che arrivano da città diverse, da stagionalità diverse, ma che condividono le stesse paure. E, spesso, trovano risposte diverse.

Il vero punto, però, non è il programma. È l’intenzione. È quel desiderio di smettere di fare le cose “come sempre” e iniziare a farle “come serve”.

Da dove partire?

E quando le soluzioni sembrano mancare, i numeri possono aiutare. Anche per capire da dove ripartire. O dove cambiare. «Non sai quante volte ci arriva la telefonata: “Le cose vanno male”, ma nessuno sa spiegare esattamente perché».

Ma la chiarezza non basta: serve ispirazione e anche un po’ di coraggio.
Non è una ricetta, è un invito a non giocare in difesa, a non restare nell’illusione che “così come siamo” basti anche domani. Perché nel mondo dell’hôtellerie, il vero check-out non lo fa il cliente, lo fa chi smette di crescere; e noi, da qui, non vogliamo andarcene.

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