Perchè non ricevi prenotazioni dal booking engine?

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«In reception, su TikTok»: l’albergatore che racconta la vita d’hotel
«Sono nato nel ’97 a Rimini e ho sempre vissuto qui». Così si presenta Lorenzo Mura, meglio conosciuto come l’albergatore di TikTok. Nonostante la giovane età, ha già alle spalle 14 anni di lavoro in hotel: «Ho iniziato ufficialmente a lavorare a 16 anni all’interno di un residence con mia madre e il suo compagno. Poi siamo passati in un altro albergo come affittuari e da cinque anni gestiamo l’hotel dove ci troviamo attualmente».
Un apprendista con esperienza, come ama definirsi: «Ho 27 anni ma lavoro già da 14 praticamente».
Perché ha aperto un profilo TikTok?
«Sono sempre stato un fruitore di tutti i social. A una certa ho detto: ci sono talmente tante persone che si riprendono mentre fanno il lavoro, perché non proviamo? Male che vada non succede niente, male che vada non mi guarda nessuno».
Da maggio ha iniziato a pubblicare video dalla reception: momenti quotidiani, interazioni con gli ospiti, domande e curiosità. Il risultato? «Ho iniziato a pubblicare qualche video, alcuni momenti della giornata dell’albergatore alla reception e hanno avuto una piccola esplosione che mi ha portato adesso a fare circa 20.000 follower, con un aumento costante».
Chi segue un albergatore in diretta?
Il pubblico delle sue live è sorprendentemente eterogeneo. «Chiedo spesso l’età e da dove mi guardano. Va dai 16 ai 60 anni, da tutta Italia ma anche italiani all’estero. L’altro giorno una persona mi scriveva dalla California: “mi sto mettendo a dormire e ti tengo in sottofondo perché lo trovo rilassante”».
C’è anche un effetto inatteso: «C’è molto ASMR. Alcune persone lo seguono proprio per il rumore della tastiera e per l’atmosfera».
Quali sono le domande più frequenti?
«Ogni cinque commenti mi chiedono: quanti anni hai? Dove abiti? Sei fidanzato?». Poi arrivano le richieste classiche: «Quante stelle ha l’hotel? Ha la piscina?».
Ma non mancano quesiti tecnici: «Di recente qualcuno mi ha chiesto: come si gestisce la comunicazione tra le pulizie e la reception per sapere quali camere sono pronte?».
Perché non dice il nome dell’hotel?
È una delle curiosità che più tormenta gli spettatori. «I motivi per cui non lo dico sono diversi. Ho paura che rivelando il nome possano lasciare recensioni negative solo perché sono antipatico io, oppure fare scherzi telefonici. E poi c’è anche il lato opposto: chi magari mi adora e cerca un contatto solo per avere a che fare con me».
Gli haters sono inevitabili?
«La quantità di shitstorm che arriva nei commenti è molto alta rispetto alle altre piattaforme e spesso più cattiva».
Il caso più eclatante è stato un video diventato virale, in cui rifiuta il check-in a una ragazza minorenne senza delega. «Sotto il video è partito il putiferio: c’era chi diceva “io viaggio da solo da quando avevo 15 anni e non mi hanno mai chiesto nulla”. Ma le leggi sono chiare: un minorenne senza delega non può soggiornare».
Conviene davvero a un albergatore aprire TikTok?
«Io personalmente direi di sì, ma bisogna mettere in conto che i commenti negativi sono tanti. Più alti come percentuale e più cattivi».
E soprattutto, non è promozione diretta dell’hotel: «È personal branding. Al momento l’hotel non ne beneficia, anche se qualcuno mi ha chiesto preventivi. Ho smesso: molti scrivevano solo per farsi dire il nome della struttura».
Quanto è difficile crescere su TikTok?
Il percorso è fatto di scaglioni: «Per arrivare a 1000 follower ci ho messo tantissimo. Poi da 1000 a 6000 è stato velocissimo. Dai 16.000 ai 17.000 invece un’eternità. Ora sto crescendo di circa 200 follower al giorno».
E qui la lezione per gli albergatori: la costanza conta più della viralità casuale.
Qual è il consiglio numero uno per chi vuole provarci?
«Iniziare. Un telefono ce l’abbiamo tutti, un cavalletto da 8 euro basta e avanza. Io in reception faccio dirette anche di tre ore: non richiedono montaggio, non richiedono preparazione. Se capita qualcosa di interessante, registro con un secondo telefono».
Il resto è trovare un format che funzioni e avere la costanza di portarlo avanti. «Il consiglio è cercare qualcosa che non si vede ancora. Non dico mai fatto da nessuno, ma qualcosa di diverso. Perché se sei impacciato o copi altri, non funziona».
TikTok è uno spazio dove anche l’hotellerie trova voce, tra ironia e quotidianità. «Io penso che ci sia ancora margine per crescere, ma bisogna avere un contenuto originale. Il resto lo fa la costanza».

Andrea Falzaresi: «Un family hotel deve offrire qualcosa di unico e difficilmente imitabile»
C’è chi eredita un mestiere e lo porta avanti. E c’è chi, partendo da un percorso completamente diverso, riesce a trasformare un settore. È il caso di Andrea Falzaresi, fondatore del gruppo Club Family Hotel, oggi la catena di hotel per famiglie più grande in Italia. Una realtà che conta quindici strutture tra Cesenatico, Milano Marittima e Riccione, e che è diventata un modello per tanti albergatori.
Come sei passato da gioielliere ad albergatore?
Falzaresi racconta i suoi esordi senza enfasi, come se fosse la cosa più naturale del mondo. In realtà, quel passaggio quasi forzato all’hotel di proprietà dei suoceri, lo Smeraldo di Cesenatico, ha innescato una scintilla. Un cambio di vita che si è rivelato la base per una crescita imprenditoriale rapida e continua.
Chi lo osserva da fuori potrebbe pensare che per guidare una catena serva una formazione alberghiera classica. Ma spesso, lo dimostra la sua storia, proprio l’esperienza “esterna” diventa un vantaggio.
Da dove nasce l’idea di creare una catena?
All’inizio, non c’era nessun piano industriale. Solo la voglia di sperimentare. «Prima prendo un albergo, poi il secondo. Differenziazione del prodotto, specializzazione del prodotto… e un giorno un amico mi chiede: “Ma quanti ne vuoi fare?” Ho risposto tre, ma siamo arrivati a quindici».
Un percorso fatto di tentativi, intuizioni, errori e nuove idee. È così che prende forma quello che oggi è il gruppo di riferimento del turismo family in Italia.
Qual è stato il segreto del brand Club Family Hotel?
La vera svolta arriva con una decisione semplice, ma visionaria. «Ho preso tutti i domini con la parola family e la località: family hotel Cesenatico, family hotel Milano Marittima…». Una scelta che quindici anni fa non era affatto comune, ma che ha garantito al brand un vantaggio competitivo enorme: «Essendo la keyword di ricerca uguale al dominio, siamo subito primi su Google».
Dietro il successo, quindi, non c’è solo la gestione operativa. C’è una strategia di marketing chiara e lungimirante, che ancora oggi fa scuola.
Proprietà o gestione: cosa funziona di più?
Falzaresi non ha dubbi: «Gli alberghi in gestione producono reddito senza impegno finanziario. Poi sono subentrati gli acquisti, e avere due flussi ci ha dato credibilità sul mercato bancario».
Un modello ibrido, che unisce solidità e flessibilità. E che dimostra come la crescita non sia necessariamente legata a grandi investimenti iniziali, ma a scelte finanziarie ponderate e progressive.
Quanto conta specializzarsi?
«Se siamo generalisti, troveremo sempre un competitor che fa il prezzo più basso del nostro». Per questo la catena ha puntato con decisione su un target preciso: le famiglie. L’80% del mercato della riviera è fatto da famiglie con bambini.
Una lezione che va oltre il segmento family: senza specializzazione si subisce il mercato, con la specializzazione lo si cavalca.
Che impatto ha avuto il brand sulle vendite?
I numeri raccontano meglio delle parole. «Tra richieste e prenotazioni siamo all’8-12%. Noi siamo al 20-25%. Mille visite ci portano 250 richieste».
Il brand non è un concetto astratto: è conversione, velocità di vendita, prezzi più alti e fidelizzazione. In un settore in cui molti albergatori temono di non riuscire a distinguersi, il caso Club Family Hotel mostra l’impatto concreto di un posizionamento forte.
Quali servizi fanno davvero la differenza?
Il pediatra gratuito, per esempio. «Ho pensato: perché non offrirlo gratis ai nostri clienti?». Un servizio unico, diventato simbolo del brand.
Ma non è l’unico. Dalle piste di autoscontri ai parchi giochi interni, ogni anno viene introdotta una novità. «Il principio è differenziare il prodotto, sempre». Un approccio che ha trasformato il family hotel da semplice “hotel per famiglie” a format esperienziale completo.
Quali dimensioni servono per fare un vero family hotel?
«Sotto le 80-90 camere è difficile, servono spazi ampi: se ti dichiari family ma non lo sei davvero, vieni massacrato nelle recensioni».
Il messaggio agli albergatori è chiaro: il posizionamento non si improvvisa, ma servono investimenti, coerenza e soprattutto strutture adeguate.
Family hotel e lusso: due mondi separati?
«Noi cerchiamo sempre di alzare l’asticella della qualità dei nostri servizi, anno dopo anno». Un’evoluzione che apre scenari interessanti: il segmento family non è destinato a restare “popolare”, ma può conquistare un pubblico più esigente e disposto a spendere.
Che consiglio dai ai giovani albergatori?
Falzaresi conclude con un avvertimento netto: «Prima il progetto, poi la struttura. Non prendere un albergo piccolo solo per iniziare: rischi di rovinarti dopo un’estate».
Un messaggio che racchiude tutta la sua filosofia: il successo non nasce dal caso, ma dalla capacità di immaginare un format, renderlo unico e replicarlo con coerenza.

«Il futuro degli hotel passa dal copywriting e dall’intelligenza artificiale»: intervista a Marco Lutzu
Marco Lutzu è uno dei punti di riferimento in Italia in generale per il marketing, ma specificamente per il copywriting. Da subito l’atmosfera diventa quella di una conversazione tra amici, con ricordi condivisi e percorsi paralleli: «Abbiamo fatto strade parallele però siccome la conoscenza che hai di questo argomento è particolarmente utile, molto spesso ci troviamo ad affrontare conversazioni sul tema». Un professionista che ha saputo vivere sulla propria pelle le trasformazioni del mercato.
L’intelligenza artificiale distruggerà il lavoro dei copywriter?
La domanda aleggia da tempo e Marco la affronta senza mezzi termini: «Da un giorno all’altro è uscito ChatGPT, cosa che stravolgerà sempre più il lavoro. Cerchiamo di prendere la via di mezzo: è una rivoluzione, che ti piaccia o no ci devi fare i conti».
Cosa cambia davvero per chi fa impresa?
Non si tratta di estinzione, ma di evoluzione: «Non credo che sia un asteroide che estingue persone: semplicemente fa evolvere il lavoro». La strategia di Marco è stata chiara: «La mia decisione è stata impossessarsi della divulgazione, cercando di testare e divulgare allo stesso tempo».
La domanda arriva spontanea: cosa c’entra tutto questo con il mondo dell’hôtellerie? Marco non ha dubbi. «Le applicazioni più diffuse sono tre: la creazione di annunci di lavoro, che come tu sai è diventato un punto assolutamente critico; la risposta alle recensioni, perché ti toglie l’emotività; e la newsletter di contenuto».
Tre esempi semplici, che molti albergatori possono mettere in pratica già oggi.
Dove resta il valore umano?
Se la tecnologia cresce, cresce anche la domanda di autenticità. «Quando c’è una persona che parla, dall’altra parte ti chiedi: ma questa cosa è vera o non è vera? E prima ancora ti chiedi se lui è vero o non è vero».
E qui sta il nodo per l’ospitalità: «In albergo quello che tu vendi è un’esperienza human to human… il grande valore è dato dal servizio che ti dà la persona».
Quale futuro per gli hotel italiani?
Il punto è culturale: «Sai cosa manca? L’ambizione. Perché la tua famiglia ha sempre avuto un tre stelle, ma perché non alzare le stelle?».
L’Italia è il Paese con la maggiore incidenza di tre stelle in Europa. Piccolo problema: ormai la persona media a casa ha un livello di comfort maggiore di quello che offre un tre stelle. La ricetta? Pensare in grande. «Nel turismo non esistono i prodotti, esistono i sogni. Devi vendere un sogno chiaro, e per vendere un sogno devi avere il coraggio di alzare l’asticella».

Francesco Roccato: La Leadership nell'Hôtellerie di Lusso tra Passione, Talento e Visione
Com’è iniziato tutto? Dalla cucina a Managing Director per Rocco Forte Hotels
A 18 anni sognava di diventare uno chef. Oggi Francesco Roccato guida cinque delle strutture più iconiche del gruppo Rocco Forte tra Roma, Firenze e Milano. Il salto? Una crisi economica e una proposta inaspettata.
«Nel 2008 ero in Arizona, in apertura di un resort con Intercontinental. Il GM mi disse: “Qui dobbiamo tagliare delle posizioni, quindi devi fare lo chef e il food and beverage”... Alla fine mi disse: “Perché non fai lo switch?”. E così lasciai la cucina e passai al front of the house».
Essere partiti dalla cucina aiuta davvero nella leadership alberghiera?
Roccato ne è certo: «Chi diventa executive chef in hotel importanti ha una visione di squadra e di dettaglio che non è scontata. È un percorso che mi ha dato tantissimo per diventare anche direttore».
Non è solo questione di competenze. È una questione di rispetto per il lavoro. Di sapere cosa vuol dire iniziare alle cinque del mattino per scremare i più motivati, come accadeva nei college in Canada: «Ci facevano iniziare alle 5 per capire la tua forma mentis. Chi mollava, mollava».
Cosa serve oggi per essere un vero leader in hotel di lusso?
L’esperienza conta, ma non basta. «Ai ragazzi oggi bisogna dare una visione. Se non c’è la visione, si perdono». E se non motivi le persone, non ti seguono.
Leadership per lui significa tempo e presenza. «Mi piace intervistare tutte le persone che entrano nei nostri alberghi, prima della selezione finale li voglio vedere tutti. Non per dare il mio parere, ma per capire la personalità».«L’attitude non si può insegnare. Gli skill si imparano, ma l’attitudine no». Roccato cerca gente determinata, ambiziosa, ma anche umile e positiva. L’umiltà è fondamentale per mettersi al servizio dell’ospite.
E i test attitudinali? «Non ci credo molto. Alla fine è un questionario di bullet points».
Preferisce portare una persona a cena, parlarci, guardarli negli occhi: solo così riesce a capire la sostanza e la persona che ha di fronte per valutare se fare questo investimento.
Come si costruisce una squadra coesa sotto pressione?
Il clima conta, anche (e soprattutto) sotto stress. «Lavorare in armonia è la cosa più bella che ci possa essere: fidarsi l’uno dell’altro, esserci per l’altro nei momenti di bisogno... è il punto numero uno. Lavorare in armonia, sintonia e divertirsi: sono tre qualità che bisogna avere in un team».
E chi pensa che il lusso sia solo rigore, si sbaglia: «Noi lavoriamo in una missione, no? La passione, la determinazione, il divertimento sono le qualità che che che ti portano a fare entrare».
Cosa rende davvero attrattiva una compagnia come Rocco Forte oggi?
La risposta è netta: «Avere la famiglia Forte presente è molto bello perché siamo una grande azienda con un senso familiare, c'è un rapporto molto diretto. Noi abbiamo tre pillars: Family, Individuality e Authenticity».
Aggiunge Francesco: «Essere se stessi dove lavori non è scontato. Da noi i ragazzi te lo potranno confermare, loro ne sono la conferma, sono se stessi».
Come misurate il successo di un hotel, oltre all’EBITDA?
Ci sono standard Forbes, LQA e interni, certo. Ma c’è anche l’Happiness Index, la felicità delle persone che ci lavorano. Perché se hai un team felice, spendi meno in head hunter.
«Quando quando vai da un head hunter vuol dire che sei al last resource, l'ultima risorsa, quindi cosa facciamo noi? Abbiamo delle collaborazioni con delle scuole sul terreno Europeo, Spagna, Svizzera e Italia siamo coperti».
Che futuro vedi per il lusso italiano?
«Non dobbiamo ostentare». Il lusso va nella direzione dell’esperienza, della bellezza, della discrezione. L’ospite non è sempre alla sua prima volta in Italia. Vuole qualcosa di autentico, di nuovo. E il compito è sorprenderlo senza gridare.
Il futuro? Giovane, curioso, e sempre più esigente. Ma anche pieno di opportunità. «Ogni anno nel mondo ci sono 3 milioni di nuovi giovani milionari. L’Italia deve imparare a esplorare anche loro».
Un consiglio a chi vuole crescere in questo settore?
«Non bruciare le tappe. Poi se capita l'occasione ben venga, cioè che vuol dire che qualcuno ti ha notato e tu hai fatto notare la tua presenza, quindi un po’ di rischio ci va sempre. Se non rischi non vai da nessuna parte, però devi avere la consapevolezza di aver fatto una base solida».
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